Sviluppo industriale e flussi migratori in Italia (1860-1914;1983-2005)

 

“La Globalizzazione non è particolarmente nuova né, in generale, una follia.”[1] Infatti, anche se il fenomeno della Globalizzazione è indubbiamente una delle caratteristiche salienti del periodo contemporaneo, esso ha caratterizzato diverse epoche della storia dell’uomo.

Se però ci si limita ad una analisi di tipo economico, diventano evidenti le somiglianze tra il periodo attuale e quello di fine Ottocento. Ad esempio, durante le ultime decadi del XIX secolo le quantità di prodotti scambiati in rapporto alla produzione totale in nazioni quali Giappone, Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Canada raggiunse percentuali elevatissime. Tant’è che “novant’anni dopo, nonostante una facilità e capacità di trasporto delle merci enormemente superiori […] il volume di commercio internazionale è aumentato solo marginalmente.”[2] Anche altri fenomeni, non solo di tipo economico, come ad esempio quello migratorio, accomunano la fine del secolo XIX con i giorni nostri. Proprio queste affinità hanno indotto alcuni studiosi contemporanei a chiamare il periodo di fine Ottocento “prima globalizzazione” [3] per evidenziarne la somiglianza con gli ultimi lustri.

Alla luce di tutto ciò, si cercherà di tracciare un esame congiunto della situazione economica italiana durante i due periodi storici succitati soffermandosi, in particolare, sulle carenze del sistema produttivo italiano e sui flussi migratori, fenomeni entrambi strettamente connessi allo sviluppo imprenditoriale e ai problemi dell’occupazione giovanile.

Un attento esame del sistema produttivo italiano evidenzia una caratteristica negativa comune ai due periodi storici: il ritardo nello sviluppare i settori produttivi più dinamici.

Dopo l’Unità d’Italia vi fu per molti anni una scarsa attenzione allo sviluppo del settore industriale. Una evidente testimonianza di ciò è ravvisabile nel modo in cui fu costruita la protezione doganale. In primo luogo si cercò di difendere il settore agricolo, e in particolare la cerealicoltura, e solo successivamente si decise di estendere la protezione anche al settore industriale, privilegiando soprattutto i comparti storici, quale ad esempio il tessile, e quelli dell’industria pesante, fondamentali anche per motivi bellici. Inoltre, la protezione doganale non fu di alcuno stimolo allo sviluppo industriale. Sia i cerealicoltori, che avevano larga rappresentanza in Parlamento, che gli industriali sfruttarono la protezione accordata ai loro prodotti solo per preservare le proprie rendite e non per ammodernare gli apparati produttivi o per avviare attività nuove in settori più competitivi. Questa errata visione, che relegava lo sviluppo industriale in secondo piano favorendo il settore primario e quello commerciale, era molto diffusa fra gli imprenditori. Essi continuavano ad investire nelle campagne oppure focalizzavano l’attenzione quasi esclusivamente sui settori protetti dai dazi all’importazione. Accadde così che invece di favorire lo sviluppo di comparti industriali più innovativi e a più forte crescita si riuscì solo a far sopravvivere imprese poco innovative che sarebbero state sicuramente sconfitte nel confronto competitivo con le imprese di altre nazioni europee.

Questo tipo di sviluppo economico si rivelò estremamente negativo per l’intera nazione perché proprio il settore industriale, e cioè il settore produttivo più innovativo a quel tempo, stava significativamente contribuendo allo sviluppo economico delle nazioni europee. Infatti, le regioni che avevano avviato per tempo il processo di industrializzazione attraversavano, in quei decenni, un lungo periodo di espansione economica.

Si può quindi individuare il primo ritardo fondamentale dello sviluppo economico italiano proprio in questo atteggiamento ostile verso l’industrializzazione e cioè verso l’innovazione. La classe dirigente non comprese per tempo il potenziale positivo che poteva essere espresso da un fiorente sistema industriale e, quindi, la “convinzione diffusa che lo sviluppo economico del paese avrebbe dovuto seguire il suo corso <<naturale>>, fondato sull’agricoltura, e che l’industrializzazione non dovesse essere promossa dall’alto” [4] continuò a rappresentare una opinione ben radicata nel contesto socio-politico. In questo modo, però, per più di quarant’anni l’Italia non riuscì a sviluppare un apparato produttivo paragonabile a quello delle più evolute nazioni europee e ciò pregiudicò un più vigoroso sviluppo dell’intera economia.

Numerosi dati e ricerche supportano questa tesi. Nel 1890 il prodotto lordo per abitante dell’Inghilterra era il triplo di quello italiano e quello francese era il doppio, [5] mentre nel 1861 i PIL per abitante in Inghilterra e in Francia superavano quello italiano rispettivamente del 130% e del 70% [6].

Risulta evidente da questo dato l’incremento del gap di sviluppo fra l’Italia e i grandi Paesi europei nei primi trent’anni dopo l’Unità nazionale.

Anche la suddivisione dei lavoratori fra i tre settori produttivi evidenzia la stasi dell’innovazione tecnologica. Nel 1897 in agricoltura era occupato il 64% della forza lavoro, nell’industria il 20% e nei servizi il 16%.[7] Se confrontiamo questi dati con quelli del 1861 (69,7%; 18,1%; 12,2% [8]) si nota subito che le variazioni sono estremamente ridotte. Anche questo dato, quindi, conferma la cronica lentezza del processo di sviluppo nazionale e in particolare di quello industriale.

Per ultimo, ad ulteriore testimonianza della inadeguatezza del modello di sviluppo italiano, si può ricordare che l’Italia si posizionava nel 1861, nel 1880 e nel 1910 sempre agli ultimi posti nel confronto con le undici nazioni più progredite (vedi tabella 1).

Nonostante questi dati negativi, evidenziati anche dal confronto internazionale, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, grazie ad una classe politica più attenta nell’uso degli strumenti in suo possesso, soprattutto della politica commerciale, si riuscì a stimolare in modo positivo lo sviluppo industriale. Ciò consentì di ottenere ragguardevoli risultati economici anche se l’Italia aveva vissuto, fino ad allora, un lungo periodo di stagnazione (vedi tabella 2). L’ottima performance economica conseguita durante l’età giolittiana, ottenuta grazie ad un mix ben realizzato di politica economica, è la testimonianza di come la crescita dei settori produttivi più innovativi, che in quegli anni erano i nascenti comparti industriali, fosse indispensabile per dare impulso allo sviluppo economico.

A distanza di più di un secolo lo scenario sembra essere molto simile. Ovviamente il confronto viene operato tra due sistemi economici profondamente diversi e in un contesto internazionale in parte differente, ma ci sono numerose analogie che possono essere rintracciate nello studio comparato dei due periodi.

Infatti, anche nelle ultime decadi è possibile mettere in rilievo un fondamentale ritardo nello sviluppo dei settori produttivi più dinamici e innovativi. A partire dagli anni ottanta si è assistito nelle più avanzate nazioni europee, ed anche negli U.S.A. e in Giappone, ad un cambiamento profondo nelle strutture produttive. Vi è stato un trasferimento di investimenti e di attenzione dalle produzioni più semplici e standardizzate verso quelle tecnologicamente avanzate e ad alto valore aggiunto. In Italia, al contrario, l’intero sistema nazione non è riuscito a seguire questa evoluzione. Ciò è accaduto anche a causa delle scelte degli imprenditori. Essi hanno continuato ad investire ingenti risorse nei settori labour intensive. In questo modo essi riuscirono a conquistare i mercati che le imprese europee lasciavano man mano liberi a seguito delle loro riorganizzazioni, ma questa, con il trascorrere degli anni, si è rivelata una vittoria effimera. Nel corso degli anni ottanta gli imprenditori italiani hanno preferito scegliere la strategia più semplice, ma anche quella meno lungimirante. Non aver investito in tempo nei settori tecnologicamente avanzati si è rivelato un macroscopico errore nella visione dello sviluppo produttivo. Ed infatti, quell’errore è alla base di buona parte dei problemi che il sistema produttivo italiano deve oggi fronteggiare. Il sistema Italia ha una limitata presenza nei settori capital intensive. Ciò da un lato limita di molto il potenziale di crescita globale della nazione, visto che tali settori registrano a livello internazionale i tassi di crescita più sostenuti, e contemporaneamente espone le tradizionali produzioni italiane ad una più serrata concorrenza da parte dei Paesi emergenti.

Altra carenza strutturale tipica del sistema produttivo italiano è la mancanza di un consistente numero di multinazionali. L’elevata percentuale di piccole e medie imprese rende estremamente difficile investire in ricerca e sviluppo (tabella 3) e ciò acuisce ulteriormente le differenze con i più innovativi sistemi industriali esteri. Ciò è confermato dal fatto che “i principali dati di confronto internazionale confermano le difficoltà del nostro sistema produttivo a reggere il passo con i paesi più avanzati”.[9]

In questo contesto sembra, quindi, ripetersi ciò che era avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento. Gli imprenditori cercano di sfuggire dalla competizione internazionale arroccandosi in settori maturi e poco esposti alla concorrenza (telecomunicazioni, energia, ex monopoli pubblici). Inoltre, è sempre più viva e diffusa la richiesta di misure protettive per limitare gli effetti della concorrenza estera. Ancora una volta, quindi, si cerca di risolvere i problemi strutturali con misure temporanee.

Anche in questo caso , quindi, invece di avviare un lungo e difficile, ma necessario, processo di ammodernamento, si è preferito utilizzare dei palliativi per limitare nel modo più veloce e semplice i danni provocati da una errata visione dello sviluppo nazionale.

Ciò, come oggi è palese a tutti, ha inesorabilmente condotto l’Italia verso una situazione critica. Da un lato ci sono le nazioni sviluppate, le quali negli ultimi anni stanno focalizzando risorse sui settori tecnologicamente più avanzati e contestualmente si avviano verso la terziarizzazione. Dall’altro lato ci sono le nazioni emergenti che stanno impetuosamente incrementando le produzioni di manufatti ad alto uso di manodopera. L’Italia si trova al centro di questi due fenomeni e dovrà cercare di contrastarli entrambi. È necessario elevare il contenuto tecnologico delle produzioni nazionali per evitare di veder ampliarsi il gap tecnologico con le nazioni avanzate. Contemporaneamente, finché questo processo non sarà completato, si dovrà difendere le produzioni tradizionali del made in Italy dalla concorrenza dei Paesi emergenti.

Le ricette per perseguire questo duplice obiettivo sono ormai note e gli economisti le hanno indicate già da alcuni anni: migliorare le infrastrutture materiali e tecnologiche; incrementare la spesa pubblica e privata in ricerca e sviluppo; rendere più produttiva la Pubblica Amministrazione; favorire l’alta formazione dei giovani; differenziare le produzioni italiane puntando sulla qualità e sul design; favorire la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese. Ma sembra, visti gli scarsi risultati ottenuti finora, che non ci sia una diffusa volontà politica e imprenditoriale che possa realmente stimolare e accelerare il processo di ammodernamento del Paese. Se si continuerà a percorrere la strada del compromesso, il declino industriale prima e quello economico poi diventeranno una inevitabile certezza.

 

Uno dei fenomeni sociali più strettamente connesso al fenomeno della globalizzazione è quello della migrazione dei lavoratori. L’Italia è stata al centro di tale fenomeno sia a fine Ottocento, sia durante gli ultimi lustri.

A fine Ottocento l’Italia diede “al fenomeno emigratorio il contributo quantitativo più imponente.” [10] Gli italiani che decisero di emigrare furono milioni. Inizialmente tale flusso aveva carattere temporaneo, si emigrava nei periodi di riposo del lavoro agricolo, ma con il passare degli anni l’aggravarsi della situazione economica, in modo particolare delle condizioni di vita nelle campagne, indusse i lavoratori italiani, soprattutto uomini e in gran parte giovani, ad emigrare in modo definitivo. Questo tipo di emigrazione fu molto accentuato nel Meridione perché in quest’area la recessione incise in modo particolarmente intenso sulle condizioni di vita. L’impossibilità di esportare i prodotti agricoli tipici meridionali (olio, uva, agrumi), causata dalle ritorsioni contro i dazi italiani del 1887, incrementò la disoccupazione nelle regioni meridionali obbligando centinaia di giovani ad emigrare.

L’emigrazione, diretta sia verso le nazioni d’oltralpe, sia verso il continente americano, fu dovuta, quindi, alle negative condizioni economiche. Seppur tale situazione fosse ben nota “il governo non si curava granché dell’emigrazione e quasi la incoraggiò.”[11] Infatti, il costante flusso di emigrazione serviva per ridurre le pressioni sociali che stavano crescendo nel Meridione a causa, appunto, della negativa congiuntura economica. È ravvisabile in questo atteggiamento un completo disinteresse della classe dirigente nei confronti della crescente difficoltà dei giovani meridionali nel realizzare le proprie aspirazioni.

Solo con il nuovo secolo, quando Giolitti decise di rinegoziare i trattati commerciali per ridare vigore alle esportazioni agricole, la congiuntura economica iniziò a migliorare e di questa nuova politica commerciale si giovò grandemente anche il Meridione. Questa è una limpida testimonianza del modo in cui si dovrebbe operare per favorire lo sviluppo economico e occupazionale del meridione: si devono valorizzare i punti di forza endogeni del Meridione calibrando le politiche economiche nazionali affinché tali risorse possano sviluppare la propria forza competitiva.

Volgendo lo sguardo agli ultimi decenni ci accorgiamo che nuovamente le migrazioni di massa sono diventate una componente basilare della globalizzazione. Anche negli ultimi anni l’Italia si trova al centro di tale fenomeno, ma, a differenza della fine del XIX secolo, ora è diventata un Paese d’immigrazione. A partire dalla metà degli anni settanta ogni anno il numero di immigrati arrivati in Italia è andato costantemente aumentando rendendo l’immigrazione un rilevante fenomeno sociale. Le frequenti notizie e i numerosi dibattiti sull’immigrazione offuscano, però, un altro fenomeno migratorio tipico dell’Italia. Anche oggi esiste una emigrazione italiana che molto spesso viene ignorata. È il fenomeno conosciuto come la fuga dei cervelli. Molti ricercatori e studiosi italiani preferiscono andare all’estero per completare o continuare gli studi oppure per trovare un lavoro adeguato alle proprie ambizioni poiché ciò in Italia è diventato in molti casi estremamente difficile. In tal maniera molti laureati per non rimanere inoccupati o per non accettare occupazioni non confacenti ai loro obiettivi decidono di trasferirsi, anche in modo definitivo, in altre nazioni. Tale situazione si aggrava ulteriormente nelle regioni meridionali. In questa area il tipo di sistema produttivo presente non è tale da valorizzare il lavoro di un laureato e quindi si assiste all’emigrazione di giovani laureati meridionali sia verso il Nord Italia sia verso l’Europa e gli Stati Uniti.

Questo fenomeno può essere paragonato alle emigrazioni di fine Ottocento. Ovviamente i due flussi migratori sono qualitativamente e quantitativamente diversi, ma entrambi hanno rappresentato e rappresentano una grave perdita per l’Italia. Infatti, così come avvenuto nell’Ottocento, anche oggi l’Italia sostiene i costi per la crescita e la formazione di questi giovani, ma i benefici vanno a ricadere in altre nazioni. Si dovrebbe, quindi, stimolare la nascita di nuove opportunità lavorative, soprattutto nel Meridione, in modo tale da sfruttare l’apporto che questi studenti possono dare allo sviluppo dell’intera nazione. Sarebbe opportuno, quindi, che si intervenisse quanto prima per fermare questa emorragia di intelligenze per evitare di ripetere lo stesso errore commesso nell’Ottocento, quando nulla si fece per limitare l’emigrazione dei lavoratori italiani.

 

[1] Sen (2002), pag. 15; [2] Rossi (2000), pag. 145; [3] Toniolo (2004), pag. 8; [4] Castronovo (1975), pag. 90;

[5] Castronovo (1975), pag. 81; [6] Vedi Toniolo (1978), pag. 4; [7] Fuà (1981), pag. 105; [8] Roberto Romano (1991), pag. 163 e segg;

[9] Bersani e Letta (2004), pag. 70; [10] Dell’Orefice (1978), pag. 22; [11] Smith (1997), pag. 288.

 

Tabella 1: Posizione relativa dell’Italia nel confronto con gli 11 Paesi più sviluppati

 

1860

1880

1910

Agricoltura

10

10

10

Industria

9-10

9

9

Fonte: Ruggiero Romano (1991), pag. 366.

Tabella 2: Indicatori macro-economici in Italia dal 1862 al 1913 (tassi di variazione % medi annui)

  1862-1897 1897-1913
Pil reale 0,7 3,9
Pil pro capite reale 0,1 3,1
Popolazione 0,6 0,8
Occupazione 0,3 0,5
Produttività reale* 0,4 3,4
Investimenti reali** 1,2 5,6
Esportazioni reali 2,0 3,2
Salari reali 1,3 1,5
*= Pil reale/occupati; ** investimenti lordi. Fonte: Valli (2002), pag. 155.

Tabella 3: Spesa in ricerca e sviluppo ed esportazioni tecnologiche

Paese

Spesa in R&S in % del Pil (1987-1997)A

Spesa in R&S in % del Pil

(2001)B

Quote delle esportazioni ad alta tecnologia sulle esportazioni di beni A

Italia

1,1

1,07

11

Regno Unito

2,0

1,89

29

Germania

2,4

2,51

18

Francia

2,3

2,23

22

Belgio

1,6

2,17

11

Danimarca

2,0

2,4

19

Austria

1,5

1,9

12

Spagna

0,9

0,96

10

Portogallo

0,6

0,84

33

Grecia

0,5

0,64

5

Giappone

2,8

3,06

30

USA

2,6

2,74

32

Corea del Sud

2,8

-

33

Fonte: A: Valli (2002), pag. 164; B: Bersani e Letta (2004),pag. 74.

 

AF 01/11/2005

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